martedì 18 marzo 2014

17779-0

da un'idea collettiva di Alessio e Cristina Menghi, Pontoriero Claudia, 
Margareta Nemo, Alessandro Occhipinti e Micaela Pederzini

un racconto scritto & illustrato da Margareta Nemo 


Dopo un'intensa giornata di lavoro, Stephan il fabbro decise di fare una passeggiata nelle vie della città, per godersi gli ultimi raggi di sole e la brezza estiva, e forse andare dall'antiquario a comprare un nuovo fucile d'epoca per la sua collezione. Stava lasciando vagare vagare lo sguardo fra i balconi in legno traboccanti di piante, che salivano di piano in piano formando strane terrazze nello sfavillio del crepuscolo, quando si accorse di una certa agitazione fra i passanti attorno a lui. La causa di quell'agitazione pareva provenire da un individuo solitario, completamente vestito di bianco, fermo all'incrocio con un vicolo. Per quanto il suo abbigliamento e la sua peculiare forma fisica – asciutta, slanciata, impersonale – potessero apparire stravaganti, ciò che spaventava i passanti era il suo volto. O meglio, l'assenza del suo volto.
Lo sconosciuto aveva una testa ovale, perfettamente glabra, priva di naso, bocca e orecchie e priva dei naturali rilievi del volto umano. Al posto delle orecchie due piccoli imbuti metallici si addentravano direttamente nel cranio; al posto della bocca e delle narici un filtro cromato si apriva all'altezza delle corde vocali. Gli occhi erano due sfere pallide e prive di espressione, spalancate per l'assenza di palpebre. Incurante del terrore e del disgusto che ispirava ai passanti, l'essere senza volto cercava ostinatamente di attirare la loro attenzione con un monologo di gesti rapidi, precisi e del tutto incomprensibili.
Il fabbro lo vide e senza esitare si avvicinò, lo prese per un braccio e lo portò a casa sua.

L'essere senza volto non poteva parlare, ma quando il fabbro gli consegnò una manciata di fogli e una matita, iniziò a scrivere velocemente. Il suo nome era 17779-0 ed era fuggito dalla clinica di Sir Everald Emerald Upperton, il cardiologo. Il dottor Upperton si era ritirato già da molti anni in un'imponente costruzione sulla collina che sormontava la città. La chiamava “Clinica di Nuova Cardiologia” e si diceva che vi accogliesse solo alcuni pazienti accuratamente selezionati, sui quali faceva esperimenti terribili. La clinica era circondata da un immenso muro e nessuno era autorizzato a entrarvi, ma il fatto che il treno privato, che circa una volta al mese raggiungeva la piccola stazione alla base della collina, trasportasse sempre qualche persona all'arrivo, ma mai una alla partenza, pareva confermare le dicerie sul luogo. 
17779-0 era il primo abitante della clinica a essere fuggito. Scrisse che l'interno del complesso di edifici sulla collina era interamente abitato da esseri come lui, ad eccezione del cardiologo stesso, che aveva conservato le proprie fattezze umane. Gli esseri senza volto erano frutto di operazioni di perfezionamento, durante le quali più o meno ignari pazienti venivano ripuliti dei loro difetti psico-fisici. Quel che ne restava erano umanoidi privi di lineamenti, asessuati e omologati a uno standard ideale di peso e massa muscolare. Gli esseri senza volto, o “perfezionati” come li chiamava il cardiologo, non provavano paura, né altre emozioni, non erano in grado di soffrire o provare piacere e reagivano in maniera ottimale ed efficace a qualsiasi forma di stimolo sensoriale o intellettuale, grazie a una complessa struttura di recettori e ghiandole artificiali installati nei loro crani al posto delle principali strutture cerebrali. I “perfezionati” non mangiavano, non defecavano, non piangevano e non ridevano. L'assunzione di principi nutritivi e l'espulsione delle scorie avveniva in maniera meccanica, con l'aiuto di sonde e cateteri, direttamente collegati a complessi macchinari di rifornimento e depurazione, che occupavano svariate stanze della clinica. Il sonno era sostituito da check-up giornalieri della memoria a breve termine. Quando un perfezionato cessava di funzionare, cosa che generalmente capitava svariate volte al giorno, veniva riparato o riprogrammato. Quando non poteva essere riparato veniva disattivato.
17779-0 aveva deciso di fuggire perché non amava la vita in prigionia o per un difetto dovuto a una riprogrammazione incompleta, non ne era del tutto sicuro. Dovendo esprimere le sue supposizioni in percentuale, trovava ragionevole supporre che la sua fuga fosse dovuta per un 40% alla prima causa, per un 30% alla seconda e per la quota restante al ruolo che vi aveva giocato il suo vicino di stanza 17779-6.
17779-6 era diverso dagli altri perfezionati. Un po' più magro, aveva degli occhi leggermente incavati, che gli conferivano un'espressione infelice. Non amava stare da solo e nelle ore di pausa entrava spesso nella stanza di 17779-0 per raccontargli le poche cose che ricordava della sua vita precedente. Erano storie piuttosto noiose, principalmente sugli anni in cui aveva vissuto col padre prima che quello lo consegnasse al cardiologo, ed erano sempre le stesse. Ma dopo un po' 17779-0 cominciò a pensare che quelle storie noiose e il tempo che passavano assieme a rievocarle avessero più senso e più valore di tutte le ore spese in esercizi fisici, perfezionamenti, riprogrammazioni e meditazioni. Gli sembrava che fossero le uniche cose ad avere un senso.

Per questo aveva deciso che dovevano andarsene dalla clinica e scoprire come sarebbe stata la vita in libertà. Erano fuggiti insieme da una breccia nel muro di cinta, durante una delle partite a palla con cui i perfezionati si tenevano in forma due volte a giorno. 17779-0 aveva lanciato la palla giù per la discesa erbosa che portava fino al muro di cinta e poi si era lanciato alla sua rincorsa assieme all'amico. Sapevano che in quel punto c'era uno squarcio nel muro, nascosto dall'edera e dalla discesa ripida del pendio. 17779-0 si era infilato nel varco e avvertendo appena una moderata agitazione, era strisciato dall'altro lato e si era messo a correre giù per la collina. Solo dopo svariati metri si era voltato e si era reso conto che 17779-6 non era con lui. Era rimasto nella clinica. 


Doveva tornare a prenderlo ma non sapeva come.

Il cardiologo sedeva nell'alta poltrona bianca del suo immenso studio privato e fissava il vuoto. Dopo aver finito di leggere la lettera con cui il fabbro lo informava di aver dato ospitalità a una sua creatura, aveva provato un gran sollievo, immediatamente seguito dal sospetto. Che proprio il fabbro gli comunicasse una cosa del genere e lo invitasse con un tono quasi servile a venire per riprendersi il fuggiasco, gli parve poco credibile. Per sicurezza, decise quindi di portare con sé 17779-6 e altri due perfezionati che gli facessero da guardia.
Quando varcò la piccola porta di legno della casa del fabbro, ebbe conferma dei suoi sospetti. Sprofondato in una grossa poltrona scura, invecchiato e decrepito, il fabbro lo squadrava cercando di dissimulare il suo odio. Nella stanza, tappezzata di attrezzi e armi arrugginite, la grossa figura del cardiologo, col camice immacolato e le gote rosse, spiccava fastidiosamente. I due si osservarono per un poco, finché il fabbro disse:
- Mi dispiace, se n'è andato.
- Immaginavo - rispose il cardiologo, con un sorriso scaltro. Poi, passando un braccio attorno alla vita di 17779-6, aggiunse - guarda chi ti ho portato! Lo riconosci?
Il fabbro non disse niente. 17779-6 non lo guardava. I suoi occhi inespressivi scrutavano il vuoto, come se avesse intuito che da qualche parte nel buio della stanza era nascosto il suo amico con un fucile, pronto a sparare al cardiologo. 17779-0, nascosto dietro un mobile, con l'arma puntata, non ebbe il coraggio di premere il grilletto, per paura di colpirli entrambi. E così il cardiologo se ne andò con la sua scorta, lasciando il fabbro in lacrime sulla poltrona. 

Il fabbro aveva lavorato per molti anni come tuttofare alle dipendenze del cardiologo e ne aveva ammirato il genio e la maestria. Provava un'adorazione religiosa per l'immensa clinica sulla collina, con i suoi edifici di vetro e i lunghi corridoi bianchi stipati di macchinari misteriosi, ed era fiero di lavorarci. Quando il cardiologo aveva iniziato i suoi esperimenti di perfezionamento e tutta la comunità scientifica lo aveva abbandonato in un silenzio imbarazzato, mentre gli assistenti e dipendenti, uno dopo l'altro, si licenziavano e abbandonavano i laboratori, il fabbro gli era rimasto fedele e lo aveva appoggiato nel suo progetto. Lo aveva sostenuto con tale ardore che gli aveva consegnato il suo unico figlio, perché lo perfezionasse. Il fabbro amava suo figlio, ma non sopportava l'idea di aver cresciuto un essere cagionevole, i cui pregi erano irrimediabilmente tarpati da un corpo debole e da una sensibilità morbosa, che lo portava a interessarsi di qualsiasi cosa, tranne delle poche cose utili che il fabbro si sforzava di inculcargli. Gli esperimenti del cardiologo gli sembravano l'unica possibilità per salvarlo.
Ma quando, dopo diverse settimane di interventi di adattamento, il cardiologo gli presentò 17779-6, si rese conto con dolore che quello non era più suo figlio e, ultimo fra i dipendenti, lasciò la clinica per non mettervi mai più piede. Rivedere il figlio nella sua officina, privo di volto e quasi incapace di riconoscerlo, gli aveva spezzato il cuore una seconda volta. Decise che il cardiologo doveva morire.

Il cardiologo, da parte sua, certo che il fabbro lo avesse ingannato e nascondesse ancora 17779-0 nella sua casa, si preparò per tornare con una scorta durante la notte, coglierlo di sorpresa e riprendersi quel che era suo. Quando raggiunse di nuovo la casa del fabbro, la trovò vuota e cieco di rabbia ordinò ai suoi perfezionati di bruciare tutto.
Il fabbro e 17779-0 non poterono vedere le fiamme che si alzavano dall'officina, perché si erano già intrufolati nella clinica, stavolta passando dall'ingresso principale, che il fabbro aveva aperto agilmente con un mazzo di chiavi apposito. Una volta entrati nell'edificio, quando videro che il cardiologo non c'era, 17779-0 corse a cercare il vicino nella sua stanza. Il fabbro, invece, andò a cercare l'impianto elettrico.

Il cardiologo un tempo era stato un ottimo medico. A soli ventisei anni aveva già effettuato tanti interventi di successo, che le liste d'attesa per il ricovero nella sua clinica coprivano svariati anni e la maggior parte degli aspiranti pazienti morivano sereni, nell'attesa di potersi consegnare nelle sue mani.
Se c'era una caratteristica del cardiologo capace di mettere in ombra il suo talento e la sua bravura, era la sua presunzione. Ritenendosi infallibile, accettava senza esitazione pazienti che chiunque avrebbe dato per spacciati e non si disturbava a rimanere in sala operatoria per giorni interi o a eseguire simultaneamente due o tre interventi diversi. I fatti gli davano ragione, non aveva mai perso un paziente.

Al cardiologo, che era una persona razionale, meticolosa e poco suscettibile a qualsiasi forma di emozione, capitò di innamorarsi. L'oggetto dei suoi sentimenti fu una donna straordinaria, e straordinariamente sfortunata. Gliela portarono mezza morta per un arresto cardiaco. Aveva partecipato a una notte di bevute e scommesse in una bettola della città, che si era conclusa con una sfida a chi riuscisse a mangiare più scorpioni vivi. Aveva vinto, ma il veleno degli scorpioni, assieme all'alcol, le aveva invaso il corpo e le aveva fatto scoppiare il cuore. Il cardiologo glielo ricucì pezzo per pezzo e dopo aver tenuto fra le mani per sei lunghe ore quel piccolo fagotto pulsante, e avergli lentamente restituito la sua forma e le sue funzioni, non volle più separarsi dalla sua opera, né dal contenitore.
Ma la donna, oltre ad essere straordinariamente sfortunata, aveva una straordinaria propensione per il pericolo, per l'alcol, per le scommesse e per gli amanti violenti.
Nel giro di pochi anni fu costretto ad operarla dodici volte, finché lei non si stancò delle sue premure e se ne andò. Il cardiologo fece di tutto per ritrovarla, alternando i ritmi massacranti del lavoro a complesse ricerche, svolte con ogni mezzo a sua disposizione. Alla fine riuscì a localizzarla in un lontano ospedale di contea, dove giaceva incosciente incatenata a dei macchinari, dopo una infelice relazione con una domatrice di tigri.
Il cardiologo per la prima volta nella vita dubitò dell'utilità del proprio lavoro. Si mise a cercare tutti gli altri pazienti che aveva operato negli anni. La maggior parte erano morti. Uno si era ammalato di un tumore e dopo aver implorato invano che lo si lasciasse morire, aveva ingoiato una provetta ed era soffocato. Due si erano schiantati con un deltaplano e altri due avevano dimenticato di prendere le medicine. Altri erano morti assiderati per essersi addormentati ubriachi in mezzo alla strada o si erano gettati da palazzi e sotto treni, per una delusione d'amore o per aver perso il lavoro. Fra i suoi ultimi pazienti, una ragazza era stata sequestrata da un pazzo omicida e torturata a morte.
Il cardiologo smise di dubitare dell'utilità del proprio lavoro e precipitò nell'orribile certezza della sua nocività. Se non avesse mai operato quelle persone, con la disgustosa presunzione di salvarle, sarebbero morte di una morte rapida e accettabile. Invece lui le aveva consegnate alle grinfie di un mondo crudele e della loro stessa stupidità.
Per la prima volta in anni bevve fino a ubriacarsi, poi pianse, poi bevve ancora e alla fine chiamò nel cuore della notte l'ospedale di contea e fece trasferire segretamente nella sua clinica la donna amata. Fece preparare la sala operatoria e vi si rinchiuse con lei per dieci giorni.
Il risultato di quei dieci giorni lo chiamò 17779-0. Il numero degli interventi cardiaci che aveva completato con successo fino ad allora (17.779) seguito da uno zero, a indicare l'inizio di una serie di esperimenti completamente diversi. 17779-0 si rivelò essere la sua opera più imperfetta, ma per ovvi motivi, quella a cui teneva di più.


L'idea di perderla  gli risultava tuttora intollerabile e quella notte, dopo aver bruciato la casa del fabbro, scalò la collina a passo di marcia, soffocato dall'odio.

17779-0 nel frattempo aveva trovato il vicino nella sua stanza. Quando i due si rividero avvertirono un brivido impercettibile, qualcosa di simile a quella che un tempo doveva essere stata la felicità. Si abbracciarono e 17779-0 cominciò a spiegare a gesti rapidi la situazione. Disse all'amico che dovevano fuggire immediatamente, che il cardiologo non c'era e che dovevano solo aspettare che il fabbro li raggiungesse per andarsene assieme. Quando 17779-6 sentì nominare suo padre, le pupille gli si rimpicciolirono bruscamente.

Nel frattempo il cardiologo era tornato nella clinica. Sbatté dietro di sé la porta dello studio, gettò il cappotto sulla scrivania e trovò con orrore il fabbro seduto sulla sua poltrona.
- Non uscirai vivo di qui! - ringhiò.
- Lo so - rispose il fabbro – E neanche tu. Ho piazzato degli esplosivi nell'impianto elettrico. Salteremo per aria tutti assieme.
- Salterà per aria anche tuo figlio! - disse il cardiologo.
- Quello non è più mio figlio - sentenziò il fabbro.

Un istante dopo la clinica sulla collina esplose in una gigantesca palla di fuoco, che illuminò il cielo per miglia e miglia di distanza. Mentre gli abitanti della città correvano a osservare esterrefatti l'incendio sulla collina, di cui avrebbero parlato ancora per molti anni, due figure solitarie si allontanavano in fretta nell'oscurità. 17779-0 e 17779-6 erano riusciti a fuggire dalla breccia nel muro pochi istanti prima del boato. Adesso camminavano mano nella mano sulla strada, senza sapere se e come avrebbero vissuto, e senza preoccuparsene.

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