da un'idea collettiva di Alessio e Cristina Menghi, Pontoriero Claudia,
Margareta Nemo, Alessandro Occhipinti e Micaela Pederzini
un racconto scritto & illustrato da Margareta Nemo
Dopo un'intensa giornata di lavoro, Stephan il fabbro decise di fare una passeggiata
nelle vie della città, per godersi gli ultimi raggi di sole e la brezza estiva,
e forse andare dall'antiquario a comprare un nuovo fucile d'epoca per la sua
collezione. Stava lasciando vagare vagare lo sguardo fra i balconi in legno
traboccanti di piante, che salivano di piano in piano formando strane terrazze
nello sfavillio del crepuscolo, quando si accorse di una certa agitazione fra i
passanti attorno a lui. La causa di quell'agitazione pareva provenire da un
individuo solitario, completamente vestito di bianco, fermo all'incrocio con un
vicolo. Per quanto il suo abbigliamento e la sua peculiare forma fisica –
asciutta, slanciata, impersonale – potessero apparire stravaganti, ciò che
spaventava i passanti era il suo volto. O meglio, l'assenza del suo volto.
Lo
sconosciuto aveva una testa ovale, perfettamente glabra, priva di naso, bocca e
orecchie e priva dei naturali rilievi del volto umano. Al posto delle orecchie
due piccoli imbuti metallici si addentravano direttamente nel cranio; al posto
della bocca e delle narici un filtro cromato si apriva all'altezza delle corde
vocali. Gli occhi erano due sfere pallide e prive di espressione, spalancate
per l'assenza di palpebre. Incurante del terrore e del disgusto che ispirava ai
passanti, l'essere senza volto cercava ostinatamente di attirare la loro
attenzione con un monologo di gesti rapidi, precisi e del tutto
incomprensibili.
Il
fabbro lo vide e senza esitare si avvicinò, lo prese per un braccio e lo portò
a casa sua.
L'essere
senza volto non poteva parlare, ma quando il fabbro gli consegnò una manciata
di fogli e una matita, iniziò a scrivere velocemente. Il suo nome era 17779-0
ed era fuggito dalla clinica di Sir Everald Emerald Upperton, il cardiologo. Il
dottor Upperton si era ritirato già da molti anni in un'imponente costruzione
sulla collina che sormontava la città. La chiamava “Clinica di Nuova
Cardiologia” e si diceva che vi accogliesse solo alcuni pazienti accuratamente
selezionati, sui quali faceva esperimenti terribili. La clinica era circondata
da un immenso muro e nessuno era autorizzato a entrarvi, ma il fatto che il
treno privato, che circa una volta al mese raggiungeva la piccola stazione alla
base della collina, trasportasse sempre qualche persona all'arrivo, ma mai una
alla partenza, pareva confermare le dicerie sul luogo.
17779-0
era il primo abitante della clinica a essere fuggito. Scrisse che l'interno del
complesso di edifici sulla collina era interamente abitato da esseri come lui,
ad eccezione del cardiologo stesso, che aveva conservato le proprie fattezze
umane. Gli esseri senza volto erano frutto di operazioni di perfezionamento,
durante le quali più o meno ignari pazienti venivano ripuliti dei loro difetti
psico-fisici. Quel che ne restava erano umanoidi privi di lineamenti, asessuati
e omologati a uno standard ideale di peso e massa muscolare. Gli esseri senza
volto, o “perfezionati” come li chiamava il cardiologo, non provavano paura, né
altre emozioni, non erano in grado di soffrire o provare piacere e reagivano in
maniera ottimale ed efficace a qualsiasi forma di stimolo sensoriale o
intellettuale, grazie a una complessa struttura di recettori e ghiandole
artificiali installati nei loro crani al posto delle principali strutture
cerebrali. I “perfezionati” non mangiavano, non defecavano, non piangevano e
non ridevano. L'assunzione di principi nutritivi e l'espulsione delle scorie
avveniva in maniera meccanica, con l'aiuto di sonde e cateteri, direttamente
collegati a complessi macchinari di rifornimento e depurazione, che occupavano
svariate stanze della clinica. Il sonno era sostituito da check-up giornalieri
della memoria a breve termine. Quando un perfezionato cessava di funzionare,
cosa che generalmente capitava svariate volte al giorno, veniva riparato o
riprogrammato. Quando non poteva essere riparato veniva disattivato.
17779-0
aveva deciso di fuggire perché non amava la vita in prigionia o per un difetto
dovuto a una riprogrammazione incompleta, non ne era del tutto sicuro. Dovendo
esprimere le sue supposizioni in percentuale, trovava ragionevole supporre che
la sua fuga fosse dovuta per un 40% alla prima causa, per un 30% alla seconda e
per la quota restante al ruolo che vi aveva giocato il suo vicino di stanza
17779-6.
17779-6
era diverso dagli altri perfezionati. Un po' più magro, aveva degli occhi
leggermente incavati, che gli conferivano un'espressione infelice. Non amava
stare da solo e nelle ore di pausa entrava spesso nella stanza di 17779-0 per
raccontargli le poche cose che ricordava della sua vita precedente. Erano
storie piuttosto noiose, principalmente sugli anni in cui aveva vissuto col
padre prima che quello lo consegnasse al cardiologo, ed erano sempre le stesse.
Ma dopo un po' 17779-0 cominciò a pensare che quelle storie noiose e il tempo
che passavano assieme a rievocarle avessero più senso e più valore di tutte le
ore spese in esercizi fisici, perfezionamenti, riprogrammazioni e meditazioni.
Gli sembrava che fossero le uniche cose ad avere un senso.
Per
questo aveva deciso che dovevano andarsene dalla clinica e scoprire come
sarebbe stata la vita in libertà. Erano fuggiti insieme da una breccia nel muro
di cinta, durante una delle partite a palla con cui i perfezionati si tenevano
in forma due volte a giorno. 17779-0 aveva lanciato la palla giù per la discesa
erbosa che portava fino al muro di cinta e poi si era lanciato alla sua
rincorsa assieme all'amico. Sapevano che in quel punto c'era uno squarcio nel
muro, nascosto dall'edera e dalla discesa ripida del pendio. 17779-0 si era
infilato nel varco e avvertendo appena una moderata agitazione, era strisciato
dall'altro lato e si era messo a correre giù per la collina. Solo dopo svariati
metri si era voltato e si era reso conto che 17779-6 non era con lui. Era
rimasto nella clinica.
Doveva
tornare a prenderlo ma non sapeva come.
Il
cardiologo sedeva nell'alta poltrona bianca del suo immenso studio privato e
fissava il vuoto. Dopo aver finito di leggere la lettera con cui il fabbro lo
informava di aver dato ospitalità a una sua creatura, aveva provato un gran
sollievo, immediatamente seguito dal sospetto. Che proprio il fabbro gli
comunicasse una cosa del genere e lo invitasse con un tono quasi servile a
venire per riprendersi il fuggiasco, gli parve poco credibile. Per sicurezza,
decise quindi di portare con sé 17779-6 e altri due perfezionati che gli
facessero da guardia.
Quando
varcò la piccola porta di legno della casa del fabbro, ebbe conferma dei suoi
sospetti. Sprofondato in una grossa poltrona scura, invecchiato e decrepito, il
fabbro lo squadrava cercando di dissimulare il suo odio. Nella stanza,
tappezzata di attrezzi e armi arrugginite, la grossa figura del cardiologo, col
camice immacolato e le gote rosse, spiccava fastidiosamente. I due si
osservarono per un poco, finché il fabbro disse:
-
Mi dispiace, se n'è andato.
-
Immaginavo - rispose il cardiologo, con un sorriso scaltro. Poi, passando un
braccio attorno alla vita di 17779-6, aggiunse - guarda chi ti ho portato! Lo
riconosci?
Il
fabbro non disse niente. 17779-6 non lo guardava. I suoi occhi inespressivi
scrutavano il vuoto, come se avesse intuito che da qualche parte nel buio della
stanza era nascosto il suo amico con un fucile, pronto a sparare al cardiologo.
17779-0, nascosto dietro un mobile, con l'arma puntata, non ebbe il coraggio di
premere il grilletto, per paura di colpirli entrambi. E così il cardiologo se
ne andò con la sua scorta, lasciando il fabbro in lacrime sulla poltrona.
Il
fabbro aveva lavorato per molti anni come tuttofare alle dipendenze del
cardiologo e ne aveva ammirato il genio e la maestria. Provava un'adorazione
religiosa per l'immensa clinica sulla collina, con i suoi edifici di vetro e i
lunghi corridoi bianchi stipati di macchinari misteriosi, ed era fiero di
lavorarci. Quando il cardiologo aveva iniziato i suoi esperimenti di
perfezionamento e tutta la comunità scientifica lo aveva abbandonato in un
silenzio imbarazzato, mentre gli assistenti e dipendenti, uno dopo l'altro, si
licenziavano e abbandonavano i laboratori, il fabbro gli era rimasto fedele e
lo aveva appoggiato nel suo progetto. Lo aveva sostenuto con tale ardore che
gli aveva consegnato il suo unico figlio, perché lo perfezionasse. Il fabbro
amava suo figlio, ma non sopportava l'idea di aver cresciuto un essere
cagionevole, i cui pregi erano irrimediabilmente tarpati da un corpo debole e
da una sensibilità morbosa, che lo portava a interessarsi di qualsiasi cosa,
tranne delle poche cose utili che il fabbro si sforzava di inculcargli. Gli
esperimenti del cardiologo gli sembravano l'unica possibilità per salvarlo.
Ma
quando, dopo diverse settimane di interventi di adattamento, il cardiologo gli
presentò 17779-6, si rese conto con dolore che quello non era più suo figlio e,
ultimo fra i dipendenti, lasciò la clinica per non mettervi mai più piede.
Rivedere il figlio nella sua officina, privo di volto e quasi incapace di
riconoscerlo, gli aveva spezzato il cuore una seconda volta. Decise che il
cardiologo doveva morire.
Il
cardiologo, da parte sua, certo che il fabbro lo avesse ingannato e nascondesse
ancora 17779-0 nella sua casa, si preparò per tornare con una scorta durante la
notte, coglierlo di sorpresa e riprendersi quel che era suo. Quando raggiunse
di nuovo la casa del fabbro, la trovò vuota e cieco di rabbia ordinò ai suoi
perfezionati di bruciare tutto.
Il
fabbro e 17779-0 non poterono vedere le fiamme che si alzavano dall'officina,
perché si erano già intrufolati nella clinica, stavolta passando dall'ingresso
principale, che il fabbro aveva aperto agilmente con un mazzo di chiavi
apposito. Una volta entrati nell'edificio, quando videro che il cardiologo non
c'era, 17779-0 corse a cercare il vicino nella sua stanza. Il fabbro, invece,
andò a cercare l'impianto elettrico.
Il
cardiologo un tempo era stato un ottimo medico. A soli ventisei anni aveva già
effettuato tanti interventi di successo, che le liste d'attesa per il ricovero
nella sua clinica coprivano svariati anni e la maggior parte degli aspiranti
pazienti morivano sereni, nell'attesa di potersi consegnare nelle sue mani.
Se
c'era una caratteristica del cardiologo capace di mettere in ombra il suo
talento e la sua bravura, era la sua presunzione. Ritenendosi infallibile,
accettava senza esitazione pazienti che chiunque avrebbe dato per spacciati e
non si disturbava a rimanere in sala operatoria per giorni interi o a eseguire
simultaneamente due o tre interventi diversi. I fatti gli davano ragione, non
aveva mai perso un paziente.
Al
cardiologo, che era una persona razionale, meticolosa e poco suscettibile a
qualsiasi forma di emozione, capitò di innamorarsi. L'oggetto dei suoi
sentimenti fu una donna straordinaria, e straordinariamente sfortunata. Gliela
portarono mezza morta per un arresto cardiaco. Aveva partecipato a una notte di
bevute e scommesse in una bettola della città, che si era conclusa con una
sfida a chi riuscisse a mangiare più scorpioni vivi. Aveva vinto, ma il veleno
degli scorpioni, assieme all'alcol, le aveva invaso il corpo e le aveva fatto scoppiare
il cuore. Il cardiologo glielo ricucì pezzo per pezzo e dopo aver tenuto fra le
mani per sei lunghe ore quel piccolo fagotto pulsante, e avergli lentamente
restituito la sua forma e le sue funzioni, non volle più separarsi dalla sua
opera, né dal contenitore.
Ma
la donna, oltre ad essere straordinariamente sfortunata, aveva una
straordinaria propensione per il pericolo, per l'alcol, per le scommesse e per
gli amanti violenti.
Nel
giro di pochi anni fu costretto ad operarla dodici volte, finché lei non si
stancò delle sue premure e se ne andò. Il cardiologo fece di tutto per
ritrovarla, alternando i ritmi massacranti del lavoro a complesse ricerche,
svolte con ogni mezzo a sua disposizione. Alla fine riuscì a localizzarla in un
lontano ospedale di contea, dove giaceva incosciente incatenata a dei
macchinari, dopo una infelice relazione con una domatrice di tigri.
Il
cardiologo per la prima volta nella vita dubitò dell'utilità del proprio
lavoro. Si mise a cercare tutti gli altri pazienti che aveva operato negli
anni. La maggior parte erano morti. Uno si era ammalato di un tumore e dopo
aver implorato invano che lo si lasciasse morire, aveva ingoiato una provetta
ed era soffocato. Due si erano schiantati con un deltaplano e altri due avevano
dimenticato di prendere le medicine. Altri erano morti assiderati per essersi
addormentati ubriachi in mezzo alla strada o si erano gettati da palazzi e
sotto treni, per una delusione d'amore o per aver perso il lavoro. Fra i suoi
ultimi pazienti, una ragazza era stata sequestrata da un pazzo omicida e
torturata a morte.
Il
cardiologo smise di dubitare dell'utilità del proprio lavoro e precipitò
nell'orribile certezza della sua nocività. Se non avesse mai operato quelle
persone, con la disgustosa presunzione di salvarle, sarebbero morte di una
morte rapida e accettabile. Invece lui le aveva consegnate alle grinfie di un
mondo crudele e della loro stessa stupidità.
Per
la prima volta in anni bevve fino a ubriacarsi, poi pianse, poi bevve ancora e
alla fine chiamò nel cuore della notte l'ospedale di contea e fece trasferire
segretamente nella sua clinica la donna amata. Fece preparare la sala
operatoria e vi si rinchiuse con lei per dieci giorni.
Il
risultato di quei dieci giorni lo chiamò 17779-0. Il numero degli interventi
cardiaci che aveva completato con successo fino ad allora (17.779) seguito da
uno zero, a indicare l'inizio di una serie di esperimenti completamente
diversi. 17779-0 si rivelò essere la sua opera più imperfetta, ma per ovvi
motivi, quella a cui teneva di più.
L'idea
di perderla gli risultava tuttora
intollerabile e quella notte, dopo aver bruciato la casa del fabbro, scalò la
collina a passo di marcia, soffocato dall'odio.
17779-0
nel frattempo aveva trovato il vicino nella sua stanza. Quando i due si
rividero avvertirono un brivido impercettibile, qualcosa di simile a quella che
un tempo doveva essere stata la felicità. Si abbracciarono e 17779-0 cominciò a
spiegare a gesti rapidi la situazione. Disse all'amico che dovevano fuggire
immediatamente, che il cardiologo non c'era e che dovevano solo aspettare che
il fabbro li raggiungesse per andarsene assieme. Quando 17779-6 sentì nominare
suo padre, le pupille gli si rimpicciolirono bruscamente.
Nel
frattempo il cardiologo era tornato nella clinica. Sbatté dietro di sé la porta
dello studio, gettò il cappotto sulla scrivania e trovò con orrore il fabbro
seduto sulla sua poltrona.
-
Non uscirai vivo di qui! - ringhiò.
-
Lo so - rispose il fabbro – E neanche tu. Ho piazzato degli esplosivi nell'impianto
elettrico. Salteremo per aria tutti assieme.
-
Salterà per aria anche tuo figlio! - disse il cardiologo.
-
Quello non è più mio figlio - sentenziò il fabbro.
Un
istante dopo la clinica sulla collina esplose in una gigantesca palla di fuoco,
che illuminò il cielo per miglia e miglia di distanza. Mentre gli abitanti
della città correvano a osservare esterrefatti l'incendio sulla collina, di cui
avrebbero parlato ancora per molti anni, due figure solitarie si allontanavano
in fretta nell'oscurità. 17779-0 e 17779-6 erano riusciti a fuggire dalla
breccia nel muro pochi istanti prima del boato. Adesso camminavano mano nella
mano sulla strada, senza sapere se e come avrebbero vissuto, e senza
preoccuparsene.
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